Che cosa sono gli Orange Wine? Cominciamo da cosa NON sono. Chiariamo subito che non si tratta di vini ossidati, perché il colore ambrato o aranciato deriva dal contatto prolungato del mosto con le bucce e non da fenomeni ossidativi, al contrario di quello che avviene per i vini liquorosi, come il Marsala. Non sono vini dolci, assunzione che potrebbe essere fatta per associazione ai vini passiti, come il Vin Santo, ma, al contrario, sono tutti vini secchi. Il terzo fatto da chiarire è che non sono vinificati in anfora, nonostante qualche produttore utilizzi le anfore al posto di recipienti in acciaio, cemento o altri materiali. L’ultimo è il punto che genera maggior confusione: “orange wine” non è sinonimo di “vino naturale”. È vero che molti produttori rifiutano l’utilizzo di sostanze chimiche di sintesi, di pratiche enologiche invasive e prediligono le fermentazioni spontanee, ma questi non sono dei prerequisiti per questa tipologia di vini.

Il termine è stato coniato nel 2004 da un importatore inglese mentre lavorava nella cantina di Frank Cornelissen, in Sicilia, e può essere tradotto nel più banale e sicuramente meno affascinante “vino aranciato” o “vino arancione”. Nasce dalla necessità di creare una nuova categoria che descriva la tipologia di vino, per evitare che il consumatore che ha ordinato al ristorante un vino bianco si ritrovi, perplesso, di fronte a un vino con un colore arancione intenso.

Gli orange wine sono prodotti a partire da uve bianche il cui mosto-vino è lasciato a contatto con le bucce per giorni, settimane o, addirittura, qualche mese. Di fatto sono vini bianchi vinificati come si farebbe per i vini rossi. Il risultato non è solo il colore caratteristico, che si discosta dalle “normali” tonalità dei bianchi, che vanno dal giallo paglierino al dorato, è soprattutto un’estrazione dei tannini e aromi dalla buccia, che si traducono in una struttura e un’identità molto più complessa, rispetto alla stessa varietà vinificata in modo tradizionale. La filosofia che sta dietro a questa tecnica produttiva è il fatto che non si può avere il quadro completo del vitigno, del vigneto, dell’annata e del territorio se si elimina la buccia, visto che è questa che permette di esprimere la vera identità del vino.

Il processo produttivo degli orange wine è molto antico, infatti risale a circa 5.000 anni fa quando nel Caucaso (nell’attuale Georgia, che viene definita “la culla del vino”) il mosto veniva fatto fermentare a contatto con le bucce in grandi anfore di terracotta interrate, chiamate Qvevri, che raggiungevano la capienza di 1000 litri, chiuse con pietre e cera d’api.

Tale pratica è stata riportata alla luce all’inizio degli anni 90 da produttori come Radikon e Gravner attraverso un “ritorno alle origini” (come spiegato nel breve documentario “Skin Contact: Development of an Orange Taste” e nel libro “Vini Macerati nati in FVG che ora conquistano il Mondo”) con l’obiettivo di valorizzare la Ribolla Gialla, un vitigno autoctono del Friuli-Venezia Giulia, che si presta particolarmente alla vinificazione con macerazione grazie alla buccia molto spessa.

Attualmente, in Italia, altri esempi sono COS nella zona di Vittoria, in Sicilia, e sono diffusi in altri Paesi come Slovenia, Georgia, Francia, Sud Africa e Stati Uniti.

Concludo smentendo un’altra affermazione: no, non sono vini difficili. Soprattutto nel momento in cui non vengono inquadrati in schemi fissi e non vengono valutati né come vini bianchi, né come rossi.

Andrea Marcon