Sugli scaffali di enoteche, della GDO, nelle carte dei ristoranti e, perché no, negli online shop, si moltiplicano i loghi e le certificazioni presenti sulle etichette dei vini. Oltre al vino biologico, biodinamico e naturale, dei quali abbiamo parlato qualche tempo fa, c’è anche il vino vegano.

Visto il numero di persone sempre maggiore che abbraccia la filosofia vegan, dimostrato anche dall’attenzione riservata dai principali saloni dell’agroalimentare, come il Sana e il Vinitaly, viene da chiedersi se quest’ultima certificazione non sia l’ennesima “markettata”. Dopotutto il vino non dovrebbe essere di per sé un prodotto vegano, visto che è prodotto dalla fermentazione degli zuccheri dell’uva attraverso i lieviti? La risposta, ovviamente, è no.

Facciamo qualche passo indietro. Durante la produzione del vino, oltre all’uva e ai lieviti, vengono utilizzate anche delle sostante organiche e inorganiche per velocizzare il processo di illimpidimento (che avverrebbe naturalmente, grazie alla forza di gravità, ma in tempi molto lunghi) e rendere il vino più stabile, in modo che non si formino sgradevoli depositi sul fondo della bottiglia, tra il momento dell’immissione in commercio e il consumo. Tra queste sostanze ne troviamo alcune di origine animale come l’albumina d’uovo, la gelatina animale, la colla di pesce e la caseina, sostanze utilizzate nella produzione di altre bevande alcoliche e non, come il succo di mela limpido, che non si sposano con la filosofia cruelty free.

Come si riconosce un vino “vegano”? Al momento non esiste una regolamentazione a livello europeo e nazionale, anche se l’attuale Reg. (UE) 1169/2011, che disciplina l’etichettatura degli alimenti, prevede che in futuro vengano definite le norme per l’utilizzo delle informazioni volontarie. Le uniche norme a cui deve sottostare sono quelle generali dell’etichettatura ovvero veridicità, oggettività e non ingannevolezza.

Non esiste, quindi, una certificazione ufficiale, ma solo quelle rilasciate da enti privati e volontari.

In commercio si trovano diversi loghi che identificano la caratteristica “vegan” e la prima distinzione va fatta tra quelli che sono i “marchi” e quelle che vengono definite “certificazioni”.  Nel primo caso si tratta un simbolo che indica che l’azienda ha comprato il diritto di esporre il marchio in etichetta e garantisce, tramite un’autocertificazione, che il suo prodotto è conforme al disciplinare del marchio stesso. L’esempio più diffuso è V-Label, un marchio a livello europeo che in Italia è controllato da AVI (Associazione Vegetariana Italiana) per quanto riguarda le verifiche della documentazione e delle eventuali ispezioni, Vegan Society e VeganOk. Per quest’ultimo esiste la possibilità di richiedere una certificazione da parte di BioAgriCert.

La “certificazione”, invece, è un attestato rilasciato da un ente terzo (BioAgriCert, CSQA, ecc.), che dopo una serie di controlli garantisce la conformità del prodotto a determinati standard qualitativi.

Se nel primo caso la responsabilità civile e penale ricade solamente sull’azienda che richiede il marchio, in questo caso la responsabilità è anche dell’ente certificatore. Due esempi molto diffusi sono ICEA Bio Vegan e Qualità Vegetariana® Vegan.

Riassumendo questi concetti possiamo dire che un vino vegano prevede, oltre all’esclusione di derivati animali durante la fase di produzione, l’assenza di prodotti animali e derivati negli ausiliari di fabbricazione e nel confezionamento, come le colle per applicare le etichette, l’assenza di prodotti che abbiano comportato direttamente o indirettamente l’impiego di esperimenti animali, l’assenza di OGM e, in alcuni casi, il non impiego, durante la fase di coltivazione di letame e l’assenza di riferimenti a derivati animali in etichetta (per intenderci, niente abbinamenti con carne e formaggi).

Andrea Marcon